venerdì 12 luglio 2013

Pacific Rim: giudizio finale sull'orlo dell'Apocalisse (dan dan daaaaaan).

Ritorno un po’ su questi lidi abbandonati perché l’occasione merita e perché oggi mi gira così.

Ok, sedetevi che sarà lunga.

Iniziamo subito a levarci le formalità di mezzo.
Voto alto, molto alto.
Tra 8 e 8 e 1/2, 4 stelle e rotti su 5, insomma quelle robe lì.
Forse anche di più.

Ora parliamo sul serio.
È un film difficile.

Fare un film hollywoodiano con i robot giganti giapponesi?
C’è una tale marea di differenze nell'impostazione narrativa, nella cultura visiva e nell'interpretazione tra questi due mondi che mi viene il mal di testa solo a pensare di volerne accennare.

Fare un film del genere la prima volta?
Devi spiegare (perché devi farlo) cosa e come va questo nuovo mondo. Perché i personaggi decidono che entrare in un colosso d’acciaio con un reattore nucleare come motore è “una soluzione accettabile” per prendere a pugni mostri grossi come palazzi. 
Devi riuscire a fare tutto questo tenendo buoni i produttori, difendendo con tutto il tuo peso autoriale (che, nel caso di Del Toro, non è poco) le tue scelte, picchiando chi ti chiede di farlo "tipo Transformers". 
Devi, alla fine, giustificare il fatto che stai spendendo una paccata di soldi per animare, in buona sostanza, dei giganteschi giocattoli.  E questa cosa qui la giustifichi in un solo modo: incassando. Tanto.

È un film difficile da inquadrare, quindi.
Nel senso proprio di "inquadrare il bersaglio".

Target.
Chi potrebbe andare a vedersi ‘sto film?

Da una parte c'è una marea di gente che non capisce i film d'azione contemporanei, che spera sempre di avere un approfondimento psicologico nei personaggi, un plot twist o una struttura narrativa originale, che ha difficoltà ad adattarsi all'estetica postmoderna con CG da videogames.
Gente per cui il "sense of wonder" è materia sconosciuta, o talmente rarefatta ed eterea da essere pressoché inconsistente. 
Ma –inspiegabilmente- costoro potrebbero comunque seriamente valutare l’ipotesi di acquistare un biglietto per Pacific Rim, così come l’hanno acquistato per Avengers o per Expendables.

Ecco, a questa gente meglio dire subito: lasciate perdere.
Non provateci nemmeno.
Non è colpa vostra, nessuno ve lo rinfaccerà (be', un po' sì, ma in fondo si tratta di sberleffi da esseri intellettualmente così inferiori... sopravviverete).  
Risparmiatevi due ore di "Meh", "Bah", "Insomma" e "Che tempi, signora, che tempi".
Visto che continuano a spuntar fuori dalle fottute pareti tizi che non riescono ad apprezzare, ad esempio,  la visione di Avengers o Iron Man III, secondo me è meglio essere onesti e dir loro subito, chiaro e tondo, che non è il caso che vedano questo film.
Che tutte le loro critiche potrebbero anche essere "valide e motivate" ma non è quella, la cosa importante.
Anzi: che paradossalmente è la cosa meno importante di tutte.
Semplicemente: è come voler far piacere un film a colori ad uno che apprezza solo il bianco e nero.
Non c'è nulla di male nel vedere solo bianco e nero. 
Hanno fatto e continuano a fare film stupendi in bianco e nero.
Continuate a guardare quelli.
I miei sogni sono a colori e a me va bene così.

Andiamo dall'altra parte dello spettro.
Dalla parte di chi si aspetta "il film di robottoni definitivo".
Dal lato di chi conosce la differenza (non solo estetica, ma anche concettuale) tra lo Strike Freedom e il Turn A, o il perché in Getter Robot Daikessen lo Shin Getter Dragon ha un design mentre in Last day ne ha un altro.
A loro dico subito: NON È il film di robottoni definitivo.
Non è la realizzazione dei vostri più intensi desideri, né la versione cinematografica dell'intro di un Super Robot Taisen.



Pacific Rim paga (come deve essere, come è giusto che sia) la sua natura hollywoodiana.
È un film, in questo senso, nel migliore dei casi introduttivo.
Personaggi che voi bramereste vedere al centro dell'azione per intere sequenze fanno il loro atto di presenza scenografico e poi vengono gentilmente messi da parte.
Elementi narrativi che per chi "mastica" la materia sono talmente scontati da essere quasi superflui vengono invece estrinsecati al limite della pedanteria.
Ci sono parti di questo film che vi faranno saltare dalla sedia, certo. Ma il resto del film (quasi la metà buona, quindi) potrebbe quasi risultarvi insopportabile.
Consideratevi avvisati.
Non è il film definitivo sui robottoni. È il primo film sui robottoni. Il primo vero, intendo. 

C'è poi un'altra fetta di potenziale target.
Gente che s'è vista i suoi bei Goldrakki e Gigrobbò quand'era piccola, poi morta lì e ora se li ricorda con la lacrimuccia.
Magari potete sostituire Goldrake con Evangelion, levare qualche anno, aggiungere quella punta di insopportabile spocchia di chi s'è visto quella cacata di Anno* ed è convinto di "aver capito tutto", ma il risultato non cambia.
Su questa fascia di pubblico (che potrebbe anche risultare strategicamente importante, ai fini degli incassi finali) non mi pronuncio.
Tanto può essere che questo film gli piaccia tanto che non lo capiscano.
Propenderei per la prima ipotesi, ma dopo John Carter non mi stupisco più di nulla.

Qualcun altro?
Sì, magari i beatamente inconsapevoli.
Quelli che vanno al cinema giusto per passare un paio d’ore di tranquillo e spensierato divertimento, tra una pizza & birra e una puntata in discoteca.
Non ne sanno nulla di "preparazione al film" o di "substrato culturale", e poco gli importa.
Mi dicono esistano.
Loro secondo me si divertono parecchio.

La scommessa di Del Toro, secondo me, è stata parecchio azzardata.
Quel pazzo visionario ha veramente cercato di conciliare due filosofie e due visioni dello spettacolo molto distanti tra loro.
Ripeto quanto ho detto in più di una circostanza, in questi mesi, a chi mi chiedeva opinioni sulla realizzazione del film: guardate che se a Hollywood non hanno mai fatto "un film coi robottoni" c'è un cazzo di motivo!
NON
È
FACILE!

Del Toro c'è riuscito?
Ha vinto la scommessa?

Sì.
Ma quasi per il rotto della cuffia.

Il film parte alla grande, con un'introduzione da alzarsi e applaudire.

Poi all'improvviso sembra arenarsi.
Gioca con gli stereotipi, cincischia con ammiccamenti e citazioni, fa improbabili promesse per il futuro, come un’imponente imminente battaglia campale “full force”.



Primi piani, chiacchiere, primi piani, parentesi comica, spiegone, spiegone, primi piani.
E va avanti così per un po', quel po' troppo che potrebbe far spazientire i mecha-fan ma comunque non accontenta abbastanza i maniaci dell'approfondimento.

Per fortuna buona parte dei primi piani sono dedicati ai pettorali di Charlie Hunnam (le femminucce ringraziano), a Rinko Kikuchi (i maschietti ringraziano) o a Idris Elba (l’umanità ringrazia e si inchina doverosamente).

Non è tosto come sembra.
Deppiù. E pilota robottoni.

Insomma si fa quel tanto di melina a centrocampo che –dannazione- sembra una necessità imprescindibile dei film action di questa generazione.

Ma poi si riprende, e si riprende veramente da salti sulla poltrona: manly tears e testosterone a pacchi appena Del Toro decide di piantarla con i tentennamenti e iniziare a far vedere titani di metallo che picchiano mostri giganti.



Lo metto nero su bianco e sono disposto a sottoscriverlo: le scene d'azione sono fantastiche.
Fantastiche.
La colonna sonora pompa a dovere, le inquadrature non sono mai troppo frenetiche né troppo statiche, il senso di maestosità e grandeur dei combattenti è reso magnificamente.
Dà le piste a "fuffa Snyder" e "kababoom Bay". Ma le piste serie.
Del tipo che li sorpassa, li doppia, li doppia DI NUOVO e poi un'ALTRA VOLTA. 
Così, per gradire.
Davvero.

C'è tutto, tutto quello che ci si poteva aspettare.
Colpi speciali, mosse da arti marziali e risse da scaricatori di porto, missili, raggi, urla e cappottoni.
Tanto che a un certo punto ci si chiede (ecco che ritorna il mecha fan): ma perché non è TUTTO COSÌ, il film?
Eh.
Perché è un film hollywoodiano, non "Grendizer, Getter Robo G, Great Mazinger: Kessen! Daikaijuu" o il combattimento finale di Gurren-Lagann.
E deve -che vi/ci piaccia o meno- obbedire a delle regole che non sono quelle dei mecha anime.

Ripeto: quello che fa, Pacific Rim lo fa benissimo.
È il primo film di un franchise mai visto prima su questa scala.
Porta a casa delle sequenze memorabili (almeno 50 minuti ad Elevato Rischio Infarto), un paio di punch-line da mandare a memoria e apre una via.
Già solo per essere riuscito a fare questo si merita lodi sperticate.
E il 3D sembra addirittura sensato
(Peccato non averlo fatto in 48fps, però...).

Poi, obiettivamente, ha dei difetti.
Personaggi non abbastanza approfonditi?
Sì.
Una sceneggiatura non perfettamente equilibrata, che a tratti ti lascia interdetto, o con quel senso di "non è abbastanza..."?
Sì.
Un altro di quegli insulsi film d'azione che non c'è alcun lavoro sulla psicologia dei personaggi e sono sola mera ed effimera evasione eccetera eccetera?
Sì, per amor del cielo. Contenti? 
Ora cortesemente fuori dalle palle.
C'è un'imperdibile restrospettiva introspettiva di cinema ungherese con sottotitoli in finnico nell'altra sala.

Mi sarebbe piaciuto dire che il film è perfetto, che non ha difetti.
Ma non è così.

Ma funziona? Ha potenziale? Ti fa urlare e ridere e stupire e divertire? Ti fa credere che, in questo caso, un uomo (due, via) possa pilotare un robot gigante da combattimento?
Sì, sì, sì (per una buona parte del film, almeno) e sì.
Buon Dio, sì.

Star Wars non era un film perfetto, ma funzionava.
Superman (Superman, non Mass Murder Lagna of Steel) non era un film perfetto, ma funzionava.
Iron Man non è un film perfetto, ma funziona. 
Come pure Avengers.

Pacific Rim non è un film perfetto.
Ma, per i sacri nomi di Honda, Yokoyama, Nagai e Tomino, funziona.
È un film ad alto budget di robot giganti che combattono contro mostri giganti e FUNZIONA!



Ultima cosa: avete presente la differenza qualitativa tra Hellboy (bellino) e Hellboy 2 (splendido)?
Ecco.
La mia opinione è che, se mai Del Toro dovesse avere l'ok per un sequel (e c'è la possibilità, sì che c'è) e rispetta la stessa proporzione di Hellboy, potremmo veramente, ma veramente vederne delle belle.


* A tal proposito. Ho aspettato di aver visto il film per poter finalmente fare questa affermazione con cognizione di causa.
Questo film con Evangelion non c'entra un cazzo.
Lo ribadisco e scandisco bene, giusto per evitare possibili fraintendimenti.
Questo - film - con - Evangelion - non - c'entra - un - beneamatissimo  - cazzo.

Chiunque affermi il contrario lo fa o in malafede o perché non sa di che sta parlando. 

lunedì 3 settembre 2012

About me



Quando ho preso la decisione di aprire un blog, l'ho fatto dandomi un paio di precise regole.
Regola uno: sarei stato onesto.
Poi, come diretta conseguenza della prima regola: non avrei parlato dei "fatti miei".

Una delle caratteristiche che mi differenzia dalla "net generation" è l'incapacità di trasferire al pubblico il mio privato. Pudore, se volete.
Posso scrivere frasi ad effetto su Facebook, fare battute o accenni più o meno velati. Ma una parte consistente di quello che vivo appartiene a me, e a me solo.
Una cosa abbastanza vecchio stile, in un mondo dove si passa il tempo a postare su Twitter, me ne rendo conto. Ma io funziono così.
Questo non toglie che io possa voler condividere qualcosa di minimamente divertente, o interessante, ragion per cui nasce questo blog.

Le cose hanno funzionato benino per un po', poi non ho avuto molto tempo per star dietro al blog in modo continuativo.

Inoltre è successo che, per una di quelle strane e mistiche coincidenze, una fesseria scritta su un idiotissimo cartellone pubblicitario iniziasse a totalizzare contatti come manco Verdone che gioca a flipper.

La cosa mi ha colpito in modo non proprio positivo, così avevo pensato di prendermi una pausa e riflettere un po' su visibilità, pubblico, massimi sistemi dell'Universo…
Quella roba lì.

Fortuna vuole che ci abbia pensato la vita a riportarmi saldamente coi piedi per terra (e con l'animo anche un po' più giù).

Succede qualcosa di grave, e non è più così importante stabilire cosa sia "materiale da post".

Allora, perché sono di nuovo qui?

Perché c'è una possibilità che la scrittura abbia un minimo effetto terapeutico.
Mi è già successo.

Mio padre era una persona forte. Spesso non andavamo d'accordo e spesso abbiamo anche discusso. Tutto normale.
Ma ha fatto tutto il possibile, e anche di più, per assicurarmi un futuro che lui, per sé, aveva saputo costruirsi da solo.

All'inizio pensavo si trattasse "solo" di una forma di depressione, e dio sa se non c'erano abbastanza motivi per essere depressi, poi -con un ritardo che non sarò mai in grado di perdonarmi- scoprimmo che aveva un cancro al cervello.
Inoperabile, incurabile, mortale.
Abbiamo lottato insieme per due anni, due anni in cui l'ho visto trasformarsi dalla persona verace e sanguigna che conoscevo in un bambino incapace di muoversi e parlare, mentre quella schifezza che aveva nella testa se ne mangiava un pezzo alla volta.

Non ha mai perso la dignità, neanche quando è stato costretto alle peggiori umiliazioni dalle sue condizioni.
Il mio unico pensiero, per due anni interi, è stato fare in modo che quando fosse arrivato il momento, lui e la mia famiglia avrebbero potuto affrontarlo almeno con serenità.

In quei due anni ho tagliato fuori dalla mia vita tutto quello che poteva essere "superfluo".
Ho allentato rapporti con amici, ridotto al limite la mia vita sociale, persino condizionato il rapporto con la persona che amo in funzione del momento che sapevo attendeva la mia famiglia appena dietro l'angolo.

Il giorno prima che morisse, prima che quello che rimaneva della sua mente si spegnesse per l’ultima volta, il suo ultimo gesto di coscienza è stata una carezza.
Un ultimo, immenso gesto d'affetto da un uomo che avevo spesso reputato incapace di esprimere i propri sentimenti.
E l'ha data a me.
È stata mia, e solo mia e, se non potrà mai essere una consolazione per averlo perso, per averlo perso in quel modo, almeno mi ha dato pace.

Scrivere mi ha aiutato a raccogliere e tenere insieme i pezzi.
Per quanto possa sembrare un cliché, ha funzionato.

Con il tempo ho recuperato, ho iniziato a ricostruire.
Stavo (sto) anche andando benino, tutto considerato.

(Una cosa che ho imparato da questa esperienza è che molti parlano del dolore senza conoscerlo davvero. Magari sono convinti di essere persone con una profonda e incolmabile sofferenza interiore.
Dal mio punto di vista, fino a che negli occhi di qualcuno a cui vuoi davvero bene non vedi tutta la paura e tutto il dolore del mondo, e sai che non hai alcun potere, nessun modo per salvarlo, allora non sai nulla della sofferenza.
Puoi anche venire fuori dall'Inferno, ma di solito non è che rimanga molto oltre la cenere.)

E ora sono di nuovo qui. Proprio quando pensavo che fosse arrivato il momento di dare una nuova svolta alla mia vita, di riprendermi un pezzetto di quella vita finora accantonata.

Succede di nuovo: una malattia che non è organica come “la parola con la C” ma non per questo è meno orribile, meno subdola e debilitante. E colpisce troppo, troppo vicino.

Non so cosa succederà da domani.
Non so cosa aspettarmi oltre la paura.

Magari scrivere, gettare parole sullo schermo e poi lasciarle andare via (altrimenti non avrebbe senso: sarebbe barare) potrebbe servire a darmi anche solo qualche minuto di requie.
E, accidenti, allora ne vale la pena.
È già successo.
Magari succederà di nuovo.

Grazie per aver letto fino a qui.

lunedì 4 giugno 2012

Body Worlds: questo è (quasi) ciò che siamo - 2 cent su...

Sapevo che ci sarei andato dalla prima immagine.
M'è bastato leggere l'annuncio che all'Albergo dei Poveri a Napoli avrebbe fatto tappa la mostra Body Worlds ( qui trovate il sito italiano, qui invece quello inglese) per decidere che non me la sarei persa.



Premessa veloce per chi non sa di cosa sto parlando ed è troppo pigro per aprire i link: si tratta di un'esibizione (che ha fatto sfracelli di visitatori in tutto il mondo) di corpi plastinati, ovvero di cadaveri che, previa consenso dei diretti interessati, sono stati sottoposti dopo la morte ad un processo con particolari resine che, in pratica, "cristallizzano" i tessuti rendendoli -appunto- rigidi e simili alla plastica senza alterarne l'aspetto.
Qualcosa di simile ai corpi che si possono vedere nella Cappella di San Severo, sempre qui a Napoli, ma con molta più perizia scientifica e, quindi, con un risultato infinitamente più dettagliato e... efficace.
In seguito questi corpi vengono "lavorati": sezionati, messi in posa e quindi offerti allo sguardo dei visitatori.

Gunther von Hagens, anatomopatologo
Quello esposta nelle sale dell'Albergo dei Poveri di Napoli non è il catalogo completo ideato e realizzato da Gunther von Hagens, ma la sezione "mostra originale".
In altre parole non troverete tutto quello che si vede nelle varie foto promozionali di Body Worlds, ma solo una parte.
In particolare questa mostra si concentra molto su cuore e sistema cardiocircolatorio e, in seconda battuta, sul resto dell'anatomia umana: scheletro, muscolatura, polmoni e sistema respiratorio e così via.
La mostra è comunque molto estesa e vi ci vorranno almeno un paio d'ore per visitarla tutta per bene e studiarvi a dovere le... sculture?
Corpi?
Installazioni?

Già il fatto che io abbia dubbi su come definire quello che ho visto dovrebbe dare l'idea di quanto questa opera, di quanto l'intero lavoro del Professor von Hagens (NdMax: non avete idea di quanto mi senta Jonathan Harker a scrivere 'sta roba...) sia spiazzante.

L'acrobata. Bellissima.
La prima, fortissima impressione è che sia tutto finto.
Che ogni corpo sia un costrutto plasticoso, tipo quei manichini assurdi che si vedono nelle aulee di scienze degli anime giapponesi (se avete presente Lamù/Ureseiyatsura sapete di che parlo), o come le ricostruzioni facciali da serial polizieschi americani.
Bisogna fare un certo sforzo mentale per ricordarsi che, invece, si tratta di vera carne e vere ossa trattati chimicamente.
Che quello che state guardando non è un derivato sintetico del petrolio ma è stato, era un essere umano.
Ha vissuto.
Ed è morto.
E ora è di fronte ai vostri occhi, e sembra finto.

Intendiamoci: la mostra è impressionante, ed ha un valore scientifico che si può solo definire eccelso, fosse anche semplicemente per l'aspetto divulgativo.
Ma spesso le posizioni in cui questi corpi sono esposti e l'effetto finale stesso della plastinazioni li rendono  quasi artificiali.
Perché quello che manca è il viscidume.
Il corpo umano non è così lucido e pulito.
Il corpo umano è un insieme gelatinoso e fluido, pulsante, vischioso e pregno ricoperto da uno strato di epidermide a cui, forse, ci siamo abituati un po' troppo.
Ma senza il viscidume, senza il sangue vischioso... qualcosa si perde.

Spaccata in volo
Inoltre si nota spesso un'intenzione comunicativa che travalica la didattica.
Dall'esibizione scientifica all'installazione artistica, insomma, il passo è brevissimo (non a caso qualcuno ha parlato di "Arte Anatomica").
Non ne faccio una questione etica (la cosa non mi interessa e non tocco l'argomento neanche con un bastone di tre metri) ma estetica.
Quello che mi è successo è stato di stupirmi, spesso, più per la perizia e per le idee delle "scomposizioni" (la "Spaccata in volo" è assolutamene eccezionale, in questo senso) che per la meccanica anatomica in sé.
Il che, magari, è anche un ulteriore pregio della mostra, chi può dirlo?
Di sicuro un effetto (comunicativo, estetico, emotivo...) lo dà, quindi...

Ma come dicevo queste considerazioni non tolgono nulla ai meriti dell'esposizione, che va vista.
C'è tutto il fascino di poter scrutare dentro un corpo, di vederlo aperto e -letteralmente- dispiegato.
C'è una delle installazioni che è semplicemente perfetta, da questo punto di vista: un'operazione a cuore aperto, sul modello della Lezione di Anatomia, in cui il paziente è un plastinato, e lo è anche il medico.
Metafisica come se piovesse, insomma.

Per quanto questa cosa possa sembrare morbosa (e, in effetti, un po' lo è), vedere come sia fatto veramente un cuore, la meraviglia delle ossa dell'orecchio (tre pezzetti di pochi millimetri che vi consentono di godervi Beethoven, per dire), come funziona una rotula, scoprire che un singolo globulo rosso percorre per intero tutto il vostro corpo in meno di 20 secondi... e non su un libro o su un modellino, ma su quello che era un vero cuore, un vero apparato circolatorio...
Fossi stato un insegnante di scienze, i miei alunni ce li avrei portati a calci, se necessario.



Dovreste vedere l'altro cannocchiale...
Perché conoscersi è il metodo migliore per migliorarsi (e, in questo senso, l'opera di von Hagens è assolutamente riuscita, e meritoria).
Perché affrontare la secolare e infantile repulsione nei confronti del corpo umano (spesso del proprio corpo, santocielo) a favore di un approccio razionale e, sì, anche ironico, è un'ottima terapia contro l'idiozia generalizzata.
E la goliardia, l'umorismo anche un po' becero fanno parte del gioco.
Mi sono divertito da matti a ribattezzare una delle figure "L'Ammiraglio Grancannocchiale" (e per "cannocchiale" intendo "pene")  e con "La nuotatrice" posso dire di non essere mai stato così dentro una donna da quando ero nell'utero di mia madre.

Fumi?
E anche (anche) perché puoi dire quanto vuoi ad un fumatore che quella roba fa male, ma vedere l'espressione di sincero raccapriccio negli occhi di una che hai visto sfumacchiare prima, all'ingresso, di fronte a veri polmoni umani annegati nel catrame... oh, è tutta un'altra cosa.
(Sadismo? Mh... sì, giusto una goccia. Ma è ben meritata).




A questo proposito: ci sono un paio di punti in cui anche io ho avuto un po' di brividi.

Sono esposti diversi organi (polmoni, bronchi, reni...) colpiti da tumori a diversi stadi.
E quelli, dannazione, fanno male.

Verso la fine del percorso, poi, quasi defilata rispetto al resto, c'è una sezione tutta dedicata al concepimento e alla gestazione.
Ci sono plastinati di feti a varie fasi di sviluppo, dalle poche settimane -piccoli ammassi cellulari- alla "quasi nascita", incastonati in teche di cristallo trasparente, oltre che il corpo di una donna in stato di avanzata gravidanza.
E anche lì l'emozione, qualche che essa sia, è fortissima. Vuoi perché faceva molto caldo, o perché c'era uno strano odore come di cucina cinese...
C'è, in questa sala più che nel resto del percorso, una difficoltà maggiore a guardare con occhi distaccati. Forse per il naturale istinto che ci porta a preservare la nostra progenie, o forse perché, come in un sacrario di occasioni perse, sei di fronte ad una dichiarazione, fredda e, questa sì, crudele, della cieca imparzalità della fine prima ancora che ci sia stato un inizio.

O forse perché a me l'immagine dello Star Child di 2001 m'ha sempre messo una certa inquietudine...


  

giovedì 24 maggio 2012

True Story: Bet this

Un po' ne capisco, di linguaggio pubblicitario e di tecniche di marketing.

Mi rendo conto che, magari, delle volte bisogna anche accontentare le richieste di un cliente che "ha un'idea vincente" e non c'è verso di schiodarlo.

E va bene anche il vecchio (e per me superato, ma insomma...) adagio secondo cui "basta che se ne parli", ovvero che se una pubblicità attrae attenzione, fosse anche sotto forma di critiche negative, ha fatto il suo lavoro.

Non sono così ipocrita da condannare l'uso strategico del corpo femminile, anzi: sono il primo ad apprezzare le grazie del gentil sesso, per così dire.

Insomma: ok, va bene tutto, e tutto quello che volete ma, dopo aver visto questo:



il mio unico pensiero è che ce la meritiamo, l'estinzione.

venerdì 18 maggio 2012

True Story: El sapo coronado

Scrivo queste righe come espiazione.
Nella flebile speranza che possano dimostrare la sincerità dei miei propositi, e per offrire un'indicazione a tutti coloro che ancora non hanno compreso la verità.
Ma procediamo con ordine.






Tutto è iniziato pochi mesi fa. Ero con alcuni amici alla fine di una di quelle dissolute serate fatte di eccessi e libagioni, con le quali cerchiamo un temporaneo ristoro dalle brutture cui la vita ci sottopone.
All'uscita di uno dei locali in cui ci rifugiavamo alla ricerca di alcool e cibi diversamente salutari, ed in preda agli effluvi così tanto anelati, sprecavamo come di consuetudine il nostro misero tempo vagando per strade ignote.
È stato allora che accadde. Non ricordo bene chi di noi lo notò per primo. Forse io, la cui spiccata sensibilità ha sempre causato qualche difficoltà di troppo ad adattarsi ad un mondo che, invece, richiede notevoli dosi di ignoranza per poter sopravvivere. Forse qualcun altro, non ricordo (ecco: vedete anche voi quali effetti nefasti comporti il perdersi in futili passatempi come l'inebriante liquido alcolico).
Quel che ricordo con assoluta precisione è questa piccola vetrina, dall'apparenza quasi insignificante, e che tuttavia esercitò su tutti noi, all'istante, un fascino magnetico. 
Ma, ingenui, non capimmo. All'inizio tutto ciò che vedemmo furono incomprensibili chincaglierie, oggetti troppo bizzarri e inusuali per non suscitare risa di scherno.

E così fu: passammo interminabili minuti a ridere di quelle stramberie, di quei ninnoli che, per quanto sicuramente preziosi, erano tuttavia così peculiari e (ora ho brividi nello scrivere questa parola) alieni
Con il senno di poi, non posso far torto alle nostre controparti di quei giorni passati, poiché davvero eravamo stolti, e il riso era forse la più comprensibile delle reazioni di fronte a oggetti... no: di fronte ad un evento di tale portata.
L'incoscienza benedetta che ottenebra le nostre menti di fronte all'incommensurabile.

Dopo aver attentamente riflettuto, ho deciso di mostrare anche a voi alcuni degli oggetti di cui parlo.
Lo faccio per un duplice motivo: perché le immagini possono rappresentare una testimonianza forse più valida e concreta delle mie seppur sincere parole. E perché la vista di questi oggetti possa portare altri, come me, sulla giusta via.
Tuttavia m'è d'obbligo avvisarvi: la scarsissima abilità come fotografo del sottoscritto, unita ai danni provocati dall'inebriamento, non rende lontanamente giustizia alla squisita -per quanto insolita- manifattura di questi oggetti. Inoltre, non è stato possibile riportare tutto cià che i nostri increduli occhi hanno rimirato in quella vetrina con il passare delle settimane. Ciò che vedrete è solo, ahimè, una misera frazione dell'oscuro Universo che ci fu svelato.

Ma mi rendo conto di stare indugiando, quindi darò l'onore dell'apertura di questa carrellata, come è giusto che sia, al principale soggetto:

no, non vi sbagliate: ciò che vedete è esattamente ciò che sembra. Un pendente, dall'altezza approssimativa di una dozzina di centimetri. In sbalzo su una pietra rosso sangue (e ora, solo ora mi chiedo: sciocco, come hai potuto non capire? Misero, misero me...) troneggia un rospo in procinto di balzare, dal dorso finemente incastonato con varie pietre preziose.

Forse, dopo un iniziale e comprensibile stupore, ora starete sogghignando. Starete pensando al cattivo gusto di un oggetto del genere, e forse velatamente vi beate dei vostri superiori gusti estetici.
Vi compatisco.

Lasciate che vi mostri ancora, per poi svelare ai vostri occhi la sublima, suprema Verità.

Mirate, dunque, questo oggetto. Sì, miei ingenui lettori: è un anello. Un anello la cui grandezza (sei, o forse sette centimetri di altezza) lo rende evidentemente inadatto a mani umane. E forse, ora, anche voi iniziate a capire. Ma non affrettare le vostre menti, non sforzate troppo la vostra ragione.
Attendete.
Perdetevi, piuttosto, nello screziato colore di un indefinibile blu elettrico della pietra su cui volteggia, all'apparenza immobile, un dorato ippocampo mentre, al di sotto, un'escrescenza carnosa e pulsante si maschera abilmente da corallo.




A voi offro in visione anche questa collana.
Sì, è una collana, in cui purtroppo si nota tutta l'imperizia della mano che riprendeva questa testimonianza, che non ha saputo cogliere gli sfaccettati barlumi scarlatti del contorto metallo rosso brunito che funge da catena e che, evidentemente, è stato progettato per sfregiare irrimediabilmente la pelle del collo che cinge. O, forse, chiunque debba indossare quella collana ha pelle molto più resistente del fragile rivestimento delle umani carni...
Osservate, alfine, anche la pietra pendente. Studiate, per quanto possibile, l'alternanza di colori discordanti, la foggia e persino i particolari delle striature, che la rendono più simile ad un avanzo culinario, deliberatamente lasciato a decomporre e poi cristallizzato, che a un prodotto geologico. Un materiale che, e ora posso finalmente dirlo, non può sicuramente provenire da alcuna cava o vena mineraria della nostra terra.


Prima di proseguire oltre, e per dar mondo alla vostra mente di comprendere pienamente, devo ora fornirvi alcuni ulteriori particolari, che noi abbiamo potuto scoprire con il passare del tempo, mano a mano che le nostre visite a quella vetrina diventavano più frequenti.

Perché il fascino esercitato su di noi da questa fantasmagoria d'oggetti non si dissolse nell'arco di una notte. No: entrò dentro di noi e iniziò a crescere, come una brama, come un oscuro desiderio di tornare e guardare e scoprire ancora. Potevo leggerlo chiaramente negli occhi dei miei compagni di baccanali, e potevo vederlo chiaramente riflesso in ogni specchio su cui si posasse il mio sguardo.
Tornavamo, e tornavamo, ma sempre dopo aver ottenebrato le nostre menti. Come se nel profondo delle nostre anime già sapessimo. E ogni volta, ogni volta, da quella vetrina occhieggiavano nuovi prodigi, come se dinanzi ai nostri sguardi si fosse aperta una finestra su mondi infiniti.

Tuttavia, come è perfettamente logico supporre, indulgere in banchetti e bevute provocava lo scorrere del tempo, e noi ci recavamo di fronte alla vetrina quando la porta del negozio era oramai chiusa, poiché di molto era passato l'orario utile. Per molto tempo abbiamo commentato con amarezza questo increscioso particolare, ma ora so che questo cruccio era vano come il lamentarsi di fronte all'inevitabile. Non eravamo pronti, ancora non eravamo degni.
E ancora: moltissimi di questi oggetti non ci è stato possibile riprenderli sugli schermi dei nostri apparecchi fotografici. Le immagini apparivano sempre sfocate, mosse... poco ce ne curavamo, perché l'abbondanza di fenomeni era tale da rendere queste perdite trascurabili, e perché attribuivamo questi fallimenti alle nostre condizioni non proprio lucide. Quanto ci sbagliavamo...


Iniziai a capire.
La consapevolezza iniziò a farsi finalmente strada, come fuoco che troppo ha covato sotto le ceneri, quando vidi questo:

cos'è, vi chiederete? All'apparenza, per quanto ci sia dato di capire, è un pendente. Ma vi prego di porre attenzione ad alcuni dettagli: la grandezza, in primo luogo. Non è ben comprensibile da questa foto (finirò mai di scusarmi per la mia colpevole mancanza d'abilità?), ma l'oggetto principale, a foggia di zanna, è lungo approssimativamente una quindicina di centimetri. Un vero e proprio corno, insomma, anche se non compresi subito la portata di questa conclusione: quale animale sulla terra, infatti, possiede una zanna o un corno di tale misura e forma? E, soprattutto, perché mai utilizzarlo come monile? Ricorda molto, in effetti, i primordiali paramenti sacri degli antichi culti primigenii, quando esaltati sacerdoti usavano attrezzi simili a questo per sventrare vittime sacrificali e offrire le loro viscere fumanti ai loro iracondi Dei.

D'improvviso, fu come se la la luce rischiarasse un panorama nebbioso. I pezzi iniziarono ad andare al loro posto e tutto iniziò ad acquisire un senso.

Ma mancava un ultimo, decisivo dettaglio.
Nella mia incoscienza, avevo fatto menzione ad un conoscente, esperto esteta, di questa bottega così originale. La sua reazione fu di tale interesse che gli fornii tutte le indicazioni per poter raggiungere il luogo ove poter rimirare tali unici oggetti.
Il giorno successivo, tuttavia, l'amico mi svelò un fatto che mi provocò un profondo sconvolgimento. Aveva seguito per filo e per segno le mie istruzioni eppure, al luogo prefissato, della gioielleria non v'era alcuna traccia.
Non ho ragiore di dubitare della sua parola: so che è in buona fede.
Di più: so che ha assolutamente ragione, perché in quel momento l'epifania si è rivelata completamente al mio essere.

La vetrina, con il suo inesauribile carico di portentosi oggetti, è visibile solo a coloro che, prescelti, si trovano in stato di alterazione della coscienza e delle percezioni.
Inoltre ogni oggetto ivi contenuto, ogni signolo gioiello, è un segnale, un'indicazione mistica. Ognuno è parte di un culto antico oltre ogni dire. Il culto dedicato a El sapo coronado, il sacro Rospo Incoronato che gorgheggia nelle profondità ctoniche accanto a Chtulhu.
Ecco, mirate la sua effige:

 E ancora:

El sapo coronado

il cui dominio ultraterreno, quando i Grandi Antichi si risveglieranno dal sonno cieco e delirante in cui versano, saranno le paludi infinite in cui prosperano antichi spiriti totemici come
Il Gran Gufo:

Dimensione approx: 20 cm
La Stella Marina Arrognata:

Notare la parure con gli orecchini
E la sua progenie:

Danzano. Danzano.
I Sempiterni Crescenti Fungini di Yuggoth:

Veduta d'insieme
Dettaglio: spilla & anello
G'Lin e G'Lan, i Brontolanti Carlini Zoroastriani:

G'Lin
G'Lan
La vetrina altro non è che il primo passo del percorso iniziatico che condurrà i degni al cospetto dei Sacerdoti del Culto, per potersi unire all'adorazione del Sapo Coronado in attesa del suo Gran Gracidìo, che sarà il segnale dell'avvento di Nyarlathotep, il Caos Strisciante, e dell'inizio dell'Era di Azathoth.

Ora che so, mi pento di aver così scelleratamente riso di queste sacre effigi.
Ora che so, mi recherò nuovamente, e per l'ultima volta, in quel mistico luogo, crocevia di mondi.
Ora che so, la Porta si aprirà per me, e potrò cantare coi miei nuovi compagni non umani le lodi del Dio che Gracida dal Nero Pozzo del Cielo.

El sapo coronado.
El sapo coronado.





Croac!